Giusto trent’anni fa Sergio Testa partì dall’Australia con una barca di tre metri mezzo, costruita con le sue mani plasmando centinaia di chili d’alluminio, per una delle più incredibili imprese dimenticate della storia della vela. Con una barca che sembrava un carrarmato più che uno yacht a vela, senza particolari cognizioni nautiche, ha navigato per 500 giorni senza mai poter distendere le gambe attraverso quattro continenti e tre oceani, facendo sosta nei posti più sperduti della terra.
Questa sua navigazione venne iscritta nel Guinnes dei Primati diventando l’uomo che, in solitario, ha effettuato il Giro del Mondo con la barca più piccola della storia moderna. Il racconto della sua avventura è raccolto in un prezioso libro, pubblicato nel 1988 dal Giornale della Vela, che è stato un ottimo compagno delle mie vacanze estive in barca, ottima fonte di spunti e di sogni notturni.
Sono rimasto così colpito nella fantasia dalla storia di Sergio Testa perchè l’avventuroso Giro del Mondo con la barca più piccola mai realizzato nel lontano 1985, non è la solita storia, spesso noiosa, del classico navigatore alle prese con elementi scatenati che esprime dubbi filosofici nei momenti di bonaccia. E’ piuttosto un appassionante racconto d’avventura e di viaggio. Che si beve tutto d’un fiato. Una storia di trent’anni fa che merita di essere ricordata.
Sergio Testa ha 34 anni quando parte a fine 1984 da Brisbane, capitale sul mare dello stato australiano del Queensland. Di origine italiana, da piccolo ha vissuto in Brasile e, dopo una parentesi in Francia, la sua famiglia si è fermata dall’altra parte del mondo, diventando cittadino d‘Australia. è qui, sapendo fare di tutto ma nulla in particolare che, con i suoi fratelli, impianta un piccolo cantiere di riparazioni per yacht da diporto. Veglia sulla famiglia la grande madre italiana. Ed è lei, quando vede quella piccola barca giallo canarino di tre metri e mezzo che si e’ costruita Sergio, quello “sgorbio” con cui dice di voler fare il Giro del Mondo, che esclama in italiano: “Cos’è questo accrocchio?” Al figlio quel suono onomatopeico piace, lo storpia e lo inglesizza, così la piccola strana barca prende il nome di Acrohc Australis.
Descriviamolo questo mostricciattolo di poco più di tre metri che i giornali di Brisbane definirono “una vasca da bagno galleggiante” sostenendo, a torto, che con un oggetto del genere quell’italiano non sarebbe riuscito a mettere il naso fuori dalla baia, figurarsi fare il giro del mondo. Duecento chili di alluminio scaricati da un camion sul piazzale del loro modesto cantiere, furono la base attorno a cui nasce Acrohc Australis. Altrettanti di lamiere d’acciaio ne servirono per terminare la costruzione di uno scafo con ben quattro spigoli, piu’ facile da costruire rispetto ad uno scafo tondo.
Dopo centinaia di ore di lavoro a saldare lamiere – come recita il certificato rilasciato il 18 ottobre 1984 dalla capitaneria di Brisbane – il barchino risulta lungo 3,55 metri, largo 1,50. E’ armato a sloop, con un dislocamento di 800 kg, dotato di un profondo bulbo a siluro con 120 chili di piombo – innovativo per l’epoca – raccordato a una pinna di deriva in lamiera. Come scrive lui stesso, dopo i primi test: “la velocità massima in assetto dislocante di Acrohc Australis è di 5 nodi”. Testa aveva le idee ben chiare in tema di sicurezza, era riuscito in quel minuscolo spazio a creare ben sei compartimenti stagni così da renderla praticamente inaffondabile.
Dotata di una piccola randa e di un grande fiocco con rullafiocco murato sul bompresso, veniva manovrata solo ed esclusivamente da sottocoperta, con tutte le manovre rinviate a portata di seggiolino, l’unico luogo dove Sergio avrebbe vissuto per 500 giorni di navigazione poiché era impossibile vivere in coperta. All’aria aperta non c’era spazio sufficiente ad ospitare un uomo, se non in posizione eretta. Il timone a vento – anche quello – se l’era ovviamente costruito lui stesso e, in verità fu una delle cose che ha sempre funzionato alla perfezione. Testa aveva costruito la sua barca per fare il giro del mondo – lunga neppure un metro in più di un Optimist – sicura e solida come un carrarmato.
Certo, come racconta nel suo libro, le prestazioni a vela non erano il suo forte. Ma di certo nella sua impresa non si ispirava ai navigatori oceanici a caccia di record di velocità come un Paul Cayard, ma piuttosto a Joshua Slocum, il primo uomo ad aver fatto il giro del mondo in solitario in tre anni, dal 1895 al 1898. Quegli stessi tre anni impiegati da Sergio per completare la sua circumnavigazione del globo, dal 1984 al 1988.
Non erano molto diversi gli strumenti di navigazione che aveva a bordo rispetto a quelli di Slocum. Per fare il punto nave aveva un sestante che tra l’altro non sapeva usare bene, un VHF e una radio. Solo a metà viaggio si munì di un Sat Nav, finanziato dal fratello, antesignano del GPS odierno. Per le scorte di cibo e acqua, nessun liofilizzato ma cibo fresco, acqua sufficiente per sopravvivere in attesa di approvvigionarsi di provvidenziale acqua piovana durante la navigazione.
Il nemico di Testa nella sua impresa non sono stati i cicloni che ha incontrato nell’area caraibica, non si accorse neppure di averne passati quattro di fila, ma le incrostazioni che, malgrado l’antivegetativa, infestarono la carena di Acrohc Australis per tutto il viaggio. La velocità d’avanzamento era talmente bassa che incrostazioni, alghe e denti di cane si attaccavano all’opera viva con una rapidità sorprendente, immobilizzando la barca, anche con venti favorevoli. L’avventuriero di origine italiana rischiò di più nelle frequenti immersioni per pulire la carena che nella terribile tempesta che lo colse in Pacifico.
Il pericolo più grande, però, fu l’incendio che si sviluppò a bordo, causato dal fornello ad alcol. Dovette buttarsi a mare per non morire arrostito. Ed è stato questo anche il maggior rischio corso dalle strutture della barca con gli interni semidistrutti dalle fiamme.
Sergio Testa non puo’ essere definito un grande navigatore per questa sua eccezionale impresa, piuttosto un avventuriero dotato della necessaria incoscienza. Un uomo normale che non doveva dimostrare nulla a nessuno, senza turbe psichiche, che voleva vivere solo un’esperienza al di fuori della norma.
Al suo primo insabbiamento, dei tanti che ha avuto nei tre anni di vita in giro per il mondo, si scopri ad urlare senza ragione “Sono uomo libero, sono un uomo libero!”. Ed è questa voglia di libertà, indipendenza, ma anche di esplorazione e conoscenza di nuovi orizzonti, la molla che lo ha spinto a realizzare quest’impresa. E lo si capisce dalla gioia con cui, trascurando spesso la descrizione di tempeste e bonacce, si sofferma soprattutto a raccontare gli incontri che ha avuto approdando nei posti piu’ sperduti del mondo. Sergio Testa quando partì da Brisbane a fine 1984 era solo un pazzoide di origine italiana, quando ritornò nel 1988 era un eroe australiano.
Tratto dal GdV di Ottobre 2015