Questa non è una storia di uomini, ma di una donna. Elena Sacco, una pubblicitaria che all’apice del successo professionale sceglie il mare, una barca e decide di partire. Per sette anni, con i figli e il compagno. Per il blu. Il viaggio comincia prima, negli anni Ottanta, quando Elena incontra Claus e insieme aprono una piccola agenzia pubblicitaria a Milano. Il lavoro decolla, sboccia l’amore, nasce Nicole, arrivano le prime vele: un 6 metri e mezzo, poi una vecchia Morgan di dieci.
E poi, nel 1995, succede: Elena parte per Pordenone in auto con un collaboratore. «Ci andavo tre volte la settimana, avanti e indietro con una riunione di sei ore in mezzo» racconta. Un incidente, la macchina va fuori strada, lei rischia di morire, l’altro non ce la fa. «Quella è stata la torcia. La luce che si accende su un malessere già profondo. Non ne potevamo più di correre sulla ruota del criceto». L’idea è di Claus: «Molliamo tutto finché possiamo. Facciamolo da vivi». Potrebbero acquistare una casa al mare, un attico con vista Duomo a Milano, ma scelgono un Hallberg Rassy 38, una vela di 12 metri. Si chiamerà Viking. «Vecchiotta, però in ottime condizioni. Il proprietario la teneva in porto a Sanremo, non usciva mai. Era solida, ben costruita. Non grande, ma nemmeno minuscola. E a misura di bimbo». Sì, perché quando decidono di salpare, l’1 gennaio 1997, dopo un anno di lavori per prepararla a solcare gli oceani, dopo aver chiuso l’agenzia, è nato anche un maschietto, Jonathan.
IL GRANDE SALTO
Un corso di sopravvivenza in mare – «Ci impiegavamo venti minuti per salire sulla zattera ed eravamo in piscina!» – e l’equipaggio prende il largo. Liguria, Gibilterra, Canarie, la traversata atlantica. Non è una passeggiata, anche perché Elena soffre di mal di mare. E poi, le paure. «Non di andare a sbattere contro un’altra imbarcazione, perché il radar faceva bene il suo lavoro: avevo paura dei container e delle balene addormentate, sapevo che non avremmo potuto far niente per evitarli, nemmeno se ci fossimo messi in piedi di vedetta a prua. Non li avrebbe visti nemmeno Superman: eravamo immersi nel buio totale…». Finché, finalmente, i Caraibi. L’isola di Santa Lucia. «Scopro che una traversata è come un parto: passato il momento difficile, non ricordi più le notti d’inferno dove non fai che prendere schiaffi da onde e vento».
Isole e cieli stellati. Ma c’è il rovescio della medaglia. «Io non ho amato molto i Caraibi. Una natura da cartolina e poi ci sono isole dove sott’acqua è tutto morto, senza traccia di barriera corallina. Per non parlare del turismo nautico: baie dove si ammassano 200 barche capitanate da personaggi che non sanno nemmeno gettare l’ancora». Il viaggio, con brevi rientri a Milano per consentire a Nicole, che studia a bordo con la mamma come maestra, di affrontare l’esamino per potersi iscrivere alla classe successiva, prosegue. Venezuela, Guadalupa, Dominica, Grenadines, Isole Vergini, Cuba. Elena diventa, come dice lei, una vera barcalinga (una casalinga a vela) ed entra a far parte del mondo dei “naviganti stanziali”, una grande famiglia galleggiante che conta anche su tanti italiani. Con una loro speciale biblioteca itinerante. «È una valigia nera di cuoio, consunta, che sembra uscita da un film di Harry Potter: passa di barca in barca, l’accordo è che puoi prendere tutti i libri che vuoi lasciandone altrettanti in cambio».
LA PAUSA AMERICANA
La prima vera “pausa di terra” arriva nel 2000, quando la famiglia decide di sostare in Florida. «Volevamo dare la possibilità a Nicole di frequentare una scuola americana dove potesse imparare bene l’inglese». Casa, posto barca, un lavoretto per Claus, scuola per la bambina e asilo per Jonathan. Ma è, per l’appunto, una sosta. È il quarto anno in mare, Elena sbotta, pensa di tornare a Milano, Claus vuole continuare… Eppoi, lei vuole raccontare questa storia, scrivere un libro. Così il Viking riprende il mare, con tutti a bordo, verso il Pacifico. Panama, le Galapagos e, infine, la Polinesia. Il Paradiso. «È tanto bello che ti ci viene voglia di morire, ti sembra di entrare in contatto con il divino…». Ma, c’è sempre un ma. «Se ci vivi ti rendi conto che anche qui c’è non è tutto rose e fiori». A bordo i soldi sono agli sgoccioli, Elena s’inventa un lavoro, l’Altra Polinesia: «Si trattava di organizzare viaggi in Polinesia per gli italiani offrendo soggiorni nelle piccole pension de famille anziché nei costosi resort di lusso». Ma non glielo lasciano fare. «Gli aerei dall’Europa destinazione Polinesia sono limitati, vanno lasciati a quei turisti che spendono migliaia di euro per due settimane in Paradiso». L’esperienza col Viking, per Elena, finisce qui. Decide di tornare a Milano con i figli. «Questa scelta ha determinato una frattura nella mia relazione con Claus. È un ciclo che si chiude».
IL RITORNO A CASA
Ora, a distanza di anni da quel rientro, il libro “Siamo Liberi” (Chiarelettere). «Non potevo scriverlo subito, sentivo di dover attendere cosa sarebbe accaduto rientrando a Milano. E infatti con due figli, da sola, è stato durissimo». Perché il vero viaggio, forse, è proprio il ritorno. «Il Paradiso non altrove, è in noi. Ma se non avessi fatto quel viaggio non lo avrei capito. Il mare, in questo senso, è stato un maestro, una madre protettiva. Intorno a te infatti non ci sono più i punti di riferimento di quando hai lasciato, devi di nuovo rimetterti in discussione, ricominciare una sorta di ignoto. Un altro affascinante viaggio…». Tutti possono farlo. «Certo, con una famiglia è tutto più complicato, più limitante, ma bisogna assumersi qualche rischio se si vuole davvero partire. E se devo dirla tutta, ho visto centinaia di coppie senza bambini a bordo annoiarsi a morte. Ciò che occorre è consapevolezza, determinazione, un meticoloso studio preparatorio. Stare in barca è molto faticoso. Gli altri ti pensano in vacanza, mentre tu lavori 24 ore su 24. Quando però hai finito di faticare ti senti a posto, in paradiso, senza filtri tra te e la natura che è sempre una sorpresa, nel bene e nel male». Ci sta, a questo punto della storia, guardarsi indietro. «Lo rifarei, perché quei sette anni in barca mi hanno fatto diventare quella che sono. Col senno di poi, però, magari ridurrei la durata dell’avventura e non spenderei tutti i miei risparmi, per fare meno fatica al rientro. Dico anche però che non è detto che il viaggio sia veramente finito. Chi ama il mare, il vento, la libertà che può darti una barca, sotto sotto ha un piccolo vulcano attivo ma dormiente. Che prima o poi andrebbe lasciato esplodere».